21 Ottobre 2016

a quanto può esserci di davvero educativo nel giocare alla guerra? Per Nico Acampora molto. Mercoledì scorso l’educatore del Cag ha portato alcuni dei suoi ragazzi maggiorenni presso la sede dell’Asd Joint Task Force: una fabbrica dismessa in via Brescia dove, da qualche tempo, si pratica un’attività  particolare che molti stentano a definire sport, ma che sicuramente non tutti conoscono a fondo. Stiamo parlando dell’Urban Soft Air, la versione urbana di un gioco di squadra nato in Inghilterra e praticato soprattutto nei boschi. Basato su tattiche e usi militari, prevede che i partecipanti indossino tute mimetiche e utilizzino riproduzioni di armi da fuoco con proiettili formati da palline di plastica riempite con inchiostro. Cosa c’è di educativo? Fin qui, si direbbe niente. Considerando quelle che sono le regole del gioco, però, Acampora sostiene il contrario e ha visto nel soft air uno sport come gli altri in grado di trasmettere valori importanti. «Ci sono pregiudizi su questo gioco e molti genitori non approvano la mia scelta di farlo conoscere ai ragazzi. Soprattutto non capiscono come possa portarli lì e al tempo stesso essere impegnato a spiegare loro cosa sia l’Olocausto, simulando la vita nei campi di sterminio durante la guerra, quella vera, e organizzare i viaggi a Mauthausen» spiega Acampora. «La verità è che non c’è contraddizione. Al di là dell’apparenza il soft air è un ottimo strumento educativo basato su regole che insegnano il rispetto dell’altro, la correttezza e la lealtà. Se utilizzato con attenzione, è in grado di valorizzare alcuni aspetti fondamentali per la crescita». Cercare oggetti nelle varie stanze predisposte dagli operatori del campo, sparare solo a una certa distanza, utilizzare strategie ben precise sono alcune delle regole di questa disciplina che, tra le altre cose, non prevede la presenza di un arbitro. «Il fatto che non ci sia qualcuno a controllare non significa anarchia pura, come molti potrebbero pensare, ma anzi l’assenza di un giudice è studiata proprio per aumentare l’autodisciplina dei giocatori che se vengono colpiti devono fermarsi e dirlo», prosegue l’educatore. Rispetto, lealtà e autocontrollo sarebbero quindi gli insegnamenti che un gioco come il soft air può veicolare al di là delle apparenze. Ovviamente anche il divertimento gioca la sua parte. «Quando eravamo piccoli non fingevamo di essere indiani oppure passavamo le ore con i soldatini? Eppure i nostri genitori non ce lo proibivano e nemmeno controllavano il nostro grado di violenza e quanto ci sfogavamo sul nemico» continua il responsabile del Cag. «Fingere di fare la guerra è qualcosa che ci appartiene fin da piccoli, se questa finzione viene guidata e accompagnata da una serie di regole non solo resta divertente ma può insegnare molto sul rispetto dell’altro e sui propri limiti. Un po’ come la boxe». Un concetto che, a quanto pare, è stato recepito dai ragazzi del Cag, contenti dell’esperienza fatta e desiderosi di ripeterla. «L’ho vissuto come uno sport di squadra che ti insegna a essere leale: la violenza non c’entra niente» il commento di Simone, uno dei partecipanti.
Francesca Lavezzari